Il gioco di ruolo, così com’era rappresentato da
D&D quarant’anni fa, sarebbe potuto nascere soltanto negli Stati Uniti
d’America. Più conosco la Vecchia Scuola, più mi rendo conto di quanto l’idea
di frontiera sia il fondamento del capostipite del nostro hobby (che a volte è
un termine riduttivo, ma teniamoci sull’understatement); e solo una nazione in
cui il mito della frontiera non si fosse ancora spento avrebbe potuto dare i
natali ad un gioco la cui dimensione principale non è tanto la conquista dei tesori
quanto la conquista di nuove terre (siano esse in superficie o nelle profondità
del sottosuolo) e la loro “civilizzazione”.
Non ho intenzione di soffermarmi sulla storia
degli USA, né formulare alcun giudizio in merito alla conquista del West. Nel bene o nel male, il mito della frontiera da colonizzare e dell’ignoto da esplorare
sono la colonna portante delle varie discese nei dungeon e dei tanto amati
sandbox. Del resto, non è forse il permesso di costruire un
castello/torre/tempio fortificato ciò che corona il raggiungimento del famoso
“livello del titolo” da parte dei personaggi?
Original D&D, pag. 6: “I guerrieri di alto
livello (dal Lord in su) che costruiscono un castello vengono considerati “baroni”,
e come tali possono fare investimenti nei loro possedimenti per aumentarne le
entrate”. Ecco che la frontiera, conquistata e domata, diventa lentamente
“terra civilizzata” e il confine si sposta un po’ più in là.
In Europa, dove le nostre frontiere sono ormai
state da secoli ampiamente raggiunte, un simile presupposto non era possibile. Il
maggior concorrente europeo di D&D negli anni ’80 era (sempre che non vada
errato) Warhammer FRP, in cui il concetto di frontiera praticamente non esiste.
Anzi: il fascino del gioco sta proprio nell’arrabattarsi per sopravvivere in
una civiltà decadente, corrotta, marcia e amorale, rosa dall’interno (“The
enemy within” è proprio il titolo della più famosa campagna pubblicata dalla GW
a partire dal 1986) come dall’esterno da nemici implacabili e invincibili.
Tutt’altra musica, insomma.
La frontiera di D&D è un luogo pericoloso e
inospitale, ma anche disseminato di rovine (e tesori!) appartenenti ad antiche
civiltà scomparse, e ora popolate da mostri e creature perlopiù malvage e
ostili. Sarà un retaggio dei miei anni di scoutismo, ma per me non c’è
avventura più grande che esplorare paesaggi (a me) sconosciuti. E forse è proprio
in concomitanza con la perdita della frontiera e della libertà quasi assoluta
che questa concede ai personaggi che il gioco è cambiato. Quando il dungeon e
le terre selvagge hanno ceduto il passo alla “storia” abbiamo tutti perso
qualcosa.
E ripensando alla mia insoddisfazione permanente
nei confronti dei mondi da me stesso creati, credo di averne finalmente colto
il motivo: i miei mondi sono sempre stati fin troppo civilizzati. Anche quando
mi ripromettevo di non esagerare con le strade e le città, mi ritrovavo sempre
stretto tra nazioni dai confini ormai stabiliti e fissati, in cui non c’era più
nulla di nuovo da esplorare. Il fascino che i Forgotten Realms esercitavano su
di me tanti anni fa (e che tuttora esercitano) è per esempio il fascino delle
immense foreste della costa occidentale, delle rovine di Myth Drannor, di tutti
i posti sconosciuti e pericolosissimi da “conquistare” con la spada e la magia.
E con una mappa accurata!
Sono convinto, insomma, che la frontiera sia
l’ambientazione naturale della Vecchia Scuola: che si tratti di un dungeon o
delle terre selvagge, sempre di esplorazione si parla, di avventura, di azione,
di battaglie e (si spera) di vittoria. Ma la frontiera non è mai clemente. Se
t’infili in un dungeon senza l’equipaggiamento adatto vai incontro a morte
certa, proprio come accade se ti trovi in mezzo alla natura, in balia degli
elementi, e non hai con te ciò che serve a sopravvivere. Poi, per complicare le
cose, noi ci aggiungiamo mostri orripilanti, magie strabilianti e spade taglienti,
e nella nostra fantasia diventiamo gli eroi capaci di sopravvivere ad ogni
pericolo e di sconfiggere ogni avversario.
Sempre che i dadi ci sorridano, s’intende...
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